Carpe diem

giovedì, marzo 12, 2020

Il Leviatano

Thomas Hobbes, nel suo testo intitolato esattamente come questo scritto, fu chiaro nel definire sia la necessità sia la forza del Leviatano.
Per alcune creature l’accordo tra i membri di un gruppo è naturale; quello tra gli uomini deriva solo dal patto ed è artificiale”
Così Hobbes, nel 1651 completava la sua descrizione sui motivi che portano l’uomo a generare lo stato e sul perché per l’uomo la creazione di un ordine costituito sia necessaria.
Gli uomini in un’ipotetica condizione completamente anarchica vivono secondo la legge del più forte, gli eventuali accordi non sono normati e non sono tutelati. La condizione umana si rivela precaria, turbolenta e la vita si rivela pericolosa e quasi certamente breve.
Per questo gli uomini arrivano alla conclusione di dover generare un ordine superiore capace di garantire innanzitutto la sicurezza e la giustizia, in grado di difenderli dalle invasioni degli stranieri e dai torti reciproci.
Qual’è l’unico modo con cui si può creare un tale organo?
È quello di trasferire tutto il loro potere e tutta la loro forza ad un unico uomo o ad un’unica assemblea di uomini.
Si incarica cioè quest’uomo o quest’assemblea di dar corpo alla persona di ciascuno, che ciascuno sarà disposto a riconoscere ammettendo di essere l’autore di ogni azione compiuta. Ognuno di essi sottomette le proprie volontà e i propri giudizi, alla volontà e al giudizio di quest’ultimo.
Questo è più di consenso o concordia, è reale unità di tutti in una sola persona, realizzata mediante il patto di ciascuno con tutti gli altri, è come se si dicesse:
“Dò autorizzazione e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest’uomo alla condizione che tu, nella stessa maniera, gli ceda il tuo diritto a tua volta e ne autorizzi tutte le azioni”.

Questa è le generazione del grande Leviatano.

Un ente unico dei cui atti tutti si sono fatti autori, mediante patti reciproci di ciascuno con ogni altro, affinchè egli possa usare la forza e i mezzi di tutti nel modo che riterrà utile per la loro pace e per la difesa comune.
Si deve fare bene attenzione a comprendere il centro di questa questione, l’anima del Leviatano appena sorto (cioè dello stato) non è il potere o la forza, l’anima dello stato è la sovranità stessa. Il processo che per consenso e reciproco patto rende uno come sovrano di tutti è l’atto generatore ed anche l’anima dello stato.
La reciproca accettazione e riconoscenza della necessità del ridurre tutte le volontà ad un’unica volontà.
Se l’anima dello stato fosse la forza, si sarebbe nella condizione in cui il più forte domina sul debole, qui invece il centro è la percezione di un bisogno a cui si risponde cedendo tutti in medesima parte un po’ della nostra libertà per far si che sia gestita da una voce comune.

Riportando questi concetti all’attualità proporrei due esempi:
La legge sull’autodifesa e le recenti e stringenti norme per il contenimento del feroce contagio in corso.
Nel primo caso ci troviamo di fronte ad un sovrano che comunica ai cittadini questo:
Io non sono in grado di garantire la tua protezione al livello necessario, perciò ti autorizzo a difenderti in modo autonomo”.
Il Leviatano decide di rendere al mittente la cessione di potere e forza, perché non in grado di spenderli in modo ragionevolmente sufficiente. Il Leviatano che nasce prima di tutto per garantire la nostra protezione come si è detto “dal pericolo di invasori esterni e da torti reciproci” dichiara di non essere in grado di farlo e respinge tutto il contratto che lo genera fin da principio. Ben inteso, sappiamo bene che lo stato non è solo una forza di polizia, lo stato garantisce sanità, istruzione, previdenza sociale e più in generale quello che dopo il 1929 si chiama “Welfare state”, cioè la miriade di servizi che vanno dalla manutenzione delle strade all’intervento chirurgico. Ma se manca la tutela e la difesa del cittadino, tutto viene meno. Se a crollare è l’anima del Leviatano, tutti i suoi molteplici attributi crollano con essa.
Lavarsi le mani della tutela del cittadino è rinunciare non solo alla propria carica, ma è rinunciare alla sovranità, al motivo per cui esiste lo stato stesso.
Il problema è che noi non siamo i firmatari del patto per la cessione delle nostre libertà ad un unico soggetto, noi siamo i loro pronipoti. Per noi il patto non è opinabile, è scontato, anzi, obbligatorio. Si chiama cittadinanza, ciascuno ha la sua dalla nascita: Chi ha la fortuna di averla di un paese sereno e felice è fortunato, per gli altri sarà lungo e faticoso conquistarne una differente.
Il contratto che ciascuno di noi firma semplicemente nascendo dentro i confini di uno stato piuttosto che di un’altro è vincolante e lo costringerà a cedere parte della sua libertà al suo Leviatano.
Quindi come rimettere il contratto per inadempienza? Impossibile.
Purtroppo non c’è una soluzione e il primo dei miei due esempi termina con una semplice presa di coscienza della condizione in cui ci si trova.
Il secondo esempio invece ci porta a veder spendere la nostra potenza e la nostra forza, cedute al sovrano, in modo autoritario e unilaterale.
Seguendo il ragionamento fin qui fatto non avremmo potuto aspettarci di meglio. Ciascuno di noi ubbidisce riconoscendo l’autorità dello stato a decidere per noi.
Non decidiamo secondo coscienza, non decidiamo autonomamente, non c’è fratellanza e non c’è rispetto dei bisognosi. L’uomo non coltiva autonomamente questi movimenti d’animo se non sono comandati dall’unica voce capace di unificare un coro di cinquanta milioni di voci.
I modi e i tempi non sono oggetto di questo testo, così come non lo sono le persone che in questo momento incarnano l’assemblea che dirige lo stato nel quale ci troviamo.
Il gesto di impugnare l’incombenza di possedere la forza e la volontà di ciascuno di noi senza rimetterla al mittente come è successo in passato è ciò che ci si aspetta dal Leviatano che tutti noi, da generazioni, abbiamo costruito.



giovedì, dicembre 22, 2016

La terza via

Parliamo di rabbia e di nervosismo. Ciascuno di noi conosce il suo stato di calma, la condizione di normalità nella quale siamo padroni della nostra pazienza e ci sentiamo sereni, tralasciando maggiori o minori vulnerabilità o tendenze umorali. Quando ci si arrabbia, c'è un problema.
Il primo argomento da analizzare è cosa si intende per "rabbia": Rabbia è quello stato d'animo che può essere paragonato a violenta irritazione, dovuta a un torto subito, contrarietà o delusioni, che si manifesta spesso in modo ingiustificato e incontrollabile. Non si parla perciò solo di rabbia rivolta ad altri esseri umani, ma anche al nostro lavoro, a momenti della nostra vita, alla morte di qualcuno. Una volta data questa breve descrizione sottolineo gli aggettivi "ingiustificato" e "incontrollabile" scritti poco sopra poichè sono il primo seme della mia proposta.
Arrivati a questo punto caliamoci nella parte dell'arrabbiato.
Il caldo è la prima sensazione, poi il rossore ai padiglioni auricolari, la voglia di urlare e i denti stretti a zittirci quasi fossero più saggi di noi e si preoccupassero delle conseguenze al posto nostro.

Tra le mani abbiamo una bella matassa da sbrogliare, si tratta di decidere cosa vogliamo farne: possiamo rispondere alla nostra rabbia facendo la guerra, decidendo di lanciare quel nodo che abbiamo tra le mani contro chi o cosa ci ha fatto del male, oppure possiamo decidere di tacere, soccombere ingoiando il rospo che resterà per un tempo imprecisato seduto sul nostro stomaco logorandoci e impedendoci sonni sereni. Queste sono le prime due vie, prima di proporre la terza vorrei chiarire che queste due non solo non sono le uniche scelte ma sono anche le peggiori.
Nel primo caso incontriamo due problemi: scegliendo di scagliare la nostra rabbia e darle voce potremmo, da una parte, incontrare chi non soccombe, chi rincara la dose sulle nostre spalle, L'unico esito sarebbe l'aumento della nostra rabbia, trovandoci ad aver scagliato il nostro peso lontano da noi per vedercene restituito uno ancor più grave, allontanandoci dalla soluzione anziché trovarne una. Dall'altra parte potremmo essere arrabbiati per una scomparsa anziché con qualcuno e a quel punto ci scaglieremmo contro cosa? non sarebbe per nulla una soluzione.
Nel secondo caso, cioè dove si sia deciso di tacere e "mandare giù il boccone amaro" non avremmo trovato un buon risultato comunque. Avremo deciso di accantonare il problema rinunciando non solo allo scontro ma anche a veder riconosciute le nostre ragioni dove ce ne siano e soprattutto a risolvere la nostra rabbia. Saremo logorati dallo stesso male solo sotto forma differente.
Ciò che sono convinto possa risolvere la nostra rabbia parte esattamente in questo momento e dalla capacità di accantonare l'istinto e liberare la mente per pensare.
su due punti ci si deve focalizzare: La comprensione delle ragioni di chi ci ha fatto arrabbiare e la volontà di rispondere a questa situazione in un modo del quale non ci pentiremo ma di cui saremo fieri.
Mettersi nei panni degli altri è un esercizio da fare con questo intento; sforzandosi di dare una spiegazione all'altrui comportamento che sarebbe sottoscrivibile anche dal diretto interessato. Non è una prova empirica, probabilmente al diretto interessato non avremo mai occasione di chiederlo, specialmente se non si tratta di un essere senziente ma di una situazione o di un evento, nel senso già spiegato precedentemente. L'intento deve essere quello di ragionare in una direzione tale da costruire una descrizione nella quale l'interessato stesso possa riconoscersi. Comprendere le ragioni è il primo passo per iniziare il disbrigo della nostra questione aggrovigliata e capire se dentro alla matassa c'è effettivamente qualcosa di cui occuparsi in un secondo tempo oppure no.
L'altro punto è la volontà di rispondere seguendo una via che ci farà sentire fieri di noi e della quale non saremo pentiti. Una soluzione che ci riempirà di stima in noi stessi ci offrirà un sentimento forte e positivo in opposizione ad uno altrettanto forte e negativo che ci sta dominando in quel preciso momento. Non va dimenticato che lo scopo non è la risoluzione del conflitto ma è fondare una strada che ci permetta di gestire la rabbia senza esserne dominati, conducendoci da uno stato d'animo spiacevole alla serenità. Perciò non si confondano le strategie per avere ragione, per far valere i propri diritti o i propri obbiettivi all'interno di un contenzioso con questo scritto. Una volta risolto lo stato di rabbia ci si può e si deve certamente muovere verso i propri scopi, solo che lo si farà in modo più lucido e ragionativo.

venerdì, febbraio 26, 2016

Siae e libertà d'espressione

La musica. Ahhh la musica! quanto è bella e quanto è difficile proporla in pubblico. Gli autori negli ultimi anni hanno dovuto fare i conti con l'avvento della rete e dei brani sempre più disponibili gratuitamente, le grandi etichette perdono il controllo dei loro contenuti protetti e i negozi di dischi chiudono. Tutto questo è certamente un peccato, produrre un disco è un lavoro che coinvolge molte persone e richiede a loro molto tempo ed è impensabile pensare che lo facciano gratuitamente. Ma il rendere conto a chi scrive musica va imposto anche a chi possiede un'attività commerciale e vuole tenere una chitarra a disposizione di chi voglia suonarla al tavolino con gli amici? ebbene si. Pur garantendo l'esecuzione assolutamente improvvisata di brani senza alcuno spartito e in modo assolutamente casuale, senza alcun pubblico nè pubblicità, viene richiesto un canone annuo per poter avere uno strumento musicale. Nel caso in cui non si possieda questa sorta di licenza e un avventore del bar si porti una chitarra da casa e si metta a suonare, è necessario intervenire per farlo smettere. Tutto questo va al di la della tutela del diritto d'autore, io credo che vada a ledere la libertà d'espressione dei cittadini e sono convinto che non sia legittimo. Se qualcuno ha idee in merito lo invito a condividerle.

sabato, novembre 21, 2015

Le origini della violenza

La risposta alla domanda su quale sia il terreno che nutre le radici della violenza ha trovato diverse e contrapposte risposte. L'economicismo di matrice marxista genera un suo riduzionismo, forte nel XX secolo anche fuori dal circolo degli aderenti alla completa e più vasta proposta teoretica di Marx, individua come ragioni della violenza interessi concreti costituiti da operazioni economiche, sbocchi sul mare, petrolio. Ancora oggi si è persuasi che a fare da padroni siano in grandi interessi finanziari del mercato globale, il dominio del commercio e che tutta la violenza nasca da fatti riconducibili a questi. Il punto qui è rendersi conto che solo se ci si scorda di un intero secolo, quello appena trascorso si può pensare che chiunque sia disposto ad anteporre la propria economia alla proprie passioni.
Il secondo terreno sul quale vogliamo immaginare fiorente l'albero della violenza è quello del riduzionismo culturalista: qui si sostiene che poco contano gli interessi politici. Gli scontri che abbiamo ora sotto gli occhi sono scontri tra culture (e questo ben si sposa con le questioni legate al fanatismo islamico) che si manifestano più radicalmente nelle zone di confine tra sistemi differenti che diventano luoghi di frizione tra mondi diversi. 
Chiunque voglia affrontare seriamente il problema deve abbandonare la facilità del riduzionismo e le facili ma illusorie scorciatoie che questo ci propone. È necessario includere nella nostra analisi quella pluralità di fattori che è l'unica capace di fornirci strumenti di comprensione e di azione.
Le relazioni internazionali sono fatte di un indistricabile intreccio di interessi, idee e passioni.
Il problema della violenza è legato a questi fattori e la difficoltà non è sviscerare il loro significato ma comprendere la loro interazione. Non siamo interessati alla grammatica della violenza ma alla sua sintassi. 
Conoscevamo perfettamente la violenza su larga scala fino all'11 Settembre 2001: esisteva una violenza tra stati, la guerra; ed esisteva una "violenza etnica" che ha colpito spesso nella storia. Il terrorismo globale è una nuova violenza nei confronti della quale siamo impreparati e privi di paradigmi interpretativi. Tuttavia essa non ha sostituito le forme di violenza esistenti, si è semplicemente aggiunta ad esse. Il paradigma di controllo della violenza precedente si basava su guerre tra stati, su un loro monopolio dell'uso della forza che poteva essere sfidato solo occasionalmente. Affrontare i conflitti etnici (che sono l'anello di congiunzione tra la violenza di vecchia e più nota matrice e quella a cui oggi assistiamo) si è rivelato estremamente complesso come dimostrano gli eventi che hanno accompagnato la dissoluzione della Jugoslavia e il genocidio in Ruanda. Il nuovo terrorismo che è entrato prepotentemente in scena con l'attentato di New York, minaccia la sicurezza degli stati ma non proviene da nessuno stato, è figlio di un mondo globalizzato. Opera come una rete, si finanzia con operazioni nascoste transnazionali ed è compiuto da soggetti che hanno abbandonato le proprie identità e le loro finalità nazionali per interessi globali. 
Sostenere che la guerra in Afghanistan sia stata una "guerra al terrorismo" è semplicemente un errore. Certo, ci si è scagliati contro i Talebani che davano protezione ad un folto manipolo di terroristi e al loro capo Bin Laden, ma dovrebbe essere ben evidente da ciò che è seguito da quelle operazioni che l'unico contrasto possibile al terrorismo è composto da un immane lavoro di intelligence, unito a campagne volte a limitare il più possibile la capacità di finanziamento e armamento illeciti e la riduzione del consenso popolare che si traduce in capacità di reclutamento per gli organi terroristi. 
Sono ormai molti anni che l'ONU cerca una definizione di terrorismo, in modo tale da generare dibattito e creare piani e convenzioni ma fino ad ora non si è giunti ad un punto fermo. Non conosciamo ciò che non siamo in grado di definire e perciò siamo incapaci di contrastarlo funzionalmente. 
A questo punto del discorso sarebbe il caso di sgomberare il campo da alcuni possibili equivoci, purtroppo largamente accettati:
"Il terrorismo non è questione di fini ma di mezzi" Qui si finirebbe per dichiarare guerra al terrorismo non in quanto mosso da volontà velleitarie ma si muoverebbe guerra al kalashnikov e ai bombardamenti in quanto tali, cosa auspicabile probabilmente ma inutile ai fini di questo preciso ragionamento. 
"Il terrorismo si valuta in base alla causa perseguita" Il punto piuttosto dovrebbe essere la natura del bersaglio. Le cause che conducono i terroristi a compiere i loro scellerati gesti potrebbero anche scoprirsi (per assurdo) giuste in un prossimo futuro ma mai verrebbero legittimati atti che non hanno colpito bersagli militari ma solo obbiettivi con forte connotazione politica-psicologica, volti a piegare l'opinione pubblica, a generare paura e a far prendere di conseguenza particolari decisioni politiche.
"La violenza insurrezionale, non statale, è terrorismo". Falsità gravissima, la guerriglia non è terrorismo. 
Eppure non è affatto difficile distinguerle: Attaccare un'unità militare è guerriglia, una bomba su un autobus o lanciare un jet contro un edificio civile è terrorismo. 
Sono atti diversi militarmente, politicamente e anche moralmente. Perchè non dovrebbero esserlo anche legalmente? Il freno a mano tirato che non ci consente di risolvere questi concetti scorretti è nelle mani di coloro che sostengono che "i morti sono morti" e nel contesto di scontri che coinvolgono intere popolazioni diventa impossibile distinguere tra atti di guerra, di guerriglia o di terrorismo. 
Differenze etniche, competizione economica su risorse scarse, conflitto religioso, influenze esterne: La miscela non potrebbe dare miglior esempio della causalità plurima della violenza. Ridurre la questione ad uno qualsiasi di questi fattori allontana dalla comprensione del problema e non offre soluzioni. Se non siamo tutti noi, se non è ciascuno di noi a comprendere questo è inaccettabile pretendere che qualcuno lo faccia al posto nostro. Rimarremo capitalisti contro i comunisti, cristiani contro gli islamici, bianchi contro i neri e ignoranti contro nessuno. Se al popolo di questo mondo va bene così avremo vinto la nostra battaglia contro i mulini a vento, solo che non avremo nemmeno un posto felice e sicuro sulla terra per poter festeggiare.

sabato, ottobre 24, 2015

Giudicare o Intendere

Un altro titolo avrebbe potuto essere: "Cosa succede quando giudichiamo?"
Ho preferito quello che vedete scritto dato che mette in evidenza la dicotomia tra i due termini scritti e il senso di quello che sto per dire va esattamente in quella direzione.
Quando si esprime un giudizio, si vuol sostenere che "le cose stanno così e così".
Ma il giudizio ha sempre una fondazione autentica? conveniente?
Buona parte delle volte non è così.
Giudicare ha in italiano un' accezione (al di fuori del contesto legale-burocratico) prettamente negativa: Viene usato come aggettivo per indicare qualcuno che, pur senza conoscere l'argomento in oggetto, prende una posizione ferma, decisa e spesso bellicosa nei confronti delle opinioni divergenti.
Il giudizio è in generale un "pretendere" che le cose stiano "così e così", che troppo spesso non ha fondazione autentica e, di conseguenza, non è conveniente.
Fin qui in molti non troveranno nulla di nuovo, il mio intento è però, come detto, sottolineare la dicotomia tra Giudicare o intendere ma non dal punto di vista della semantica lessicale bensì da quello pragmatico.
Per questo fine mi farò riferimento all'uso lessicale e dispregiativo del verbo "giudicare", come nella migliore tradizione volgare.
Quante volte usiamo "giudicare" dicendo che crediamo che le cose stiano in un certo modo, o dicendo che intendiamo che le cose stanno in un certo modo?
Noi crediamo di esprimere un'opinione, un nostro intendimento, ma contemporaneamente ci rendiamo ostili al confronto e al dialogo, incapaci di esporci al cambiamento e ad un analisi di respiro più ampio.
Crediamo di credere, invece giudichiamo.
Ci isoliamo in un angolo privato di decisioni già prese (da noi medesimi) in cui le cose sono esattamente come le vorremmo, ma non esistono. Ci circondiamo di pretese a cui diamo forma ma che non possono avere sostanza e non ne avranno mai.
Chi vuole ritenere sé stessa persona ragionevole non può scordarsi di intendere, non può confondere una forte convinzione (da cui è forse pervasa e dominata), con un giudizio.
Non deve abbassarsi a giudicare.
Non deve negarsi la possibilità di comunicare e di valutare ciò che invece di conoscere ha semplicemente preteso di conoscere.
Il nemico è subdolo, si nasconde sotto la convinzione della propria disponibilità, della propria intelligenza e ci rende sordi e ignoranti.
Occorre temerlo e guardarsene, oggi più di ieri, con i propri amici, la propria famiglia, la propria fidanzata.
Il vostro intelletto ve ne sarà grato.

martedì, novembre 18, 2014

Il fine giustifica i mezzi?

Quando la nostra agiatezza di cittadini occidentali non viene data per scontata, i motivi che hanno portato alla nostra fortuna sono spesso scovati nelle condizioni climatiche, nel territorio o nelle abilità degli uomini che nella storia hanno portato l'occidente alla sua forma attuale. A nessuno viene in mente che, prima che venga colto in fallo, la casa del ladro è molto più sfarzosa di quella dell'onesto lavoratore. Il virus che ha colpito il mondo intero è il pensiero economico occidentale: dove non fa proseliti fa schiavi. Per mantenere noi fortunati occidentali a un livello di vita spaventosamente sopra le possibilità del pianeta, devono da qualche parte esserci altri esseri umani che compensano questo squilibrio, vivendo dei nostri scarti. Ora, da molti a questo punto, per risultare pungenti e controcorrente (perciò dando agli altri degli ipocriti) si sente dire: "e allora? dove sta il problema? chi ci vede fare questo? a chi importa?" Io non credo che importi a qualcuno o a qualcosa perché i punti interrogativi poco sopra pongono domande sbagliate e poco interessanti.
Il punto è se tutto ciò sia giusto e sostenibile. Mantenere il mondo in guerra, squilibrato e distante è il più azzardato errore che si possa pensare di fare.
Il mondo ha sempre fatto saltare le teste giuste, in una economia che solo lui conosce.
Vorrei non fossero le nostre, anche se ce lo meriteremmo.

lunedì, novembre 17, 2014

La Chiesa nel mondo di Dio

La Chiesa è depositaria di sapere. Ma Dio è misericordioso, la Chiesa non lo è. Mancare nel rispetto dei precetti cattolici significa non poter pretendere comprensione cattolica. Solo divina. Magra consolazione.
 E su questo, per quanto violento, nessuno dovrebbe avere nulla da ridire: Nessuno ci costringe alla fede, parliamo di un rapporto intimo e privato e venire additati da colui che è nostro giudice solo finchè glielo consentiamo è una condizione tanto priva di stress da risultare quasi ridicola, costruita e conservata solo dal nostro senso di appartenenza alla Chiesa. Ma cosa succede se la mia fede è una parte sostanziale del mio mondo e della mia vita? cosa succede se la fede è ciò a cui tengo di più, forse tutto ciò che ho?
 Sono una pecorella, Dio è il mio punto di riferimento, il mio credo. La chiesa è la sua comunità sulla terra, la comunità di coloro che credono in lui. Chi si sente parte di questo non è più nelle condizioni di scegliere. L'esempio scritto sopra era volutamente fuori luogo, quello del giudice. Chi è cattolico, non è nello stato mentale di abbandonare il suo giudice e troppo spesso è il giudice che lo abbandona. Anche se molto meglio sarebbe dire che è un padre che abbandona il figlio e mai esempio sarà più centrato.
Sono convinto che il mondo cattolico abbia perso il suo senso di "comunità che vive nella sequela di Gesù Cristo" La frase che ho scritto all'inizio, che Dio è misericordioso e la Chiesa non lo è, è una realtà, conosciuta, ammessa e perfino difesa dalla Chiesa stessa. Cosa di cui bisognerebbe vergognarsi da uomini, da cittadini, figuriamoci da presunti pastori del gregge dell'umanità, per di più in nome di Dio.
Abbandonare il Gay, il Divorziato, il Convivente, il matrimonio senza figli, la conversione, l'ateismo.
Se un Dio esiste, sono convinto che non sia credente.